La tradizione occidentale storico-filosofica fino a metà Novecento assegnava il problema della tutela dei diritti umani alla singola comunità politica, all’interno della quale i diritti umani vengono definiti e sistematizzati. Il riflesso di tale posizione è però che i diritti umani sembrano diventare un fatto di stretta competenza statale, qualcosa su cui la comunità internazionale non ha nulla da dire.
Dal punto di vista storico, però, che una comunità internazionale intanto esista è un fatto innegabile. Almeno dal 1948 (a non voler considerare il Congresso di Vienna del 1815 e la Società delle Nazioni del 1918).
Esiste non solo come ordinamento giuridico internazionale, che dal 1948 ad oggi ha fatto passi enormi, ma anche e soprattutto nella misura in cui oggi nulla che accade in alcuna parte del mondo è estraneo ad altre parti; esiste nella misura in cui la dimensione delle relazioni economico-sociali è da misurarsi su scala mondiale, e non da oggi, per il fenomeno noto come “globalizzazione”, che è ben più antico di quanto sembri (Wallerstein, Il Sistema Mondo, 1974)
La teoria filosofico-politica non è rimasta silente rispetto al problema dell’esistenza e del ruolo della comunità internazionale, anzi ha preceduto la storia in grazia della straordinaria forza immaginativa e argomentativa di grandi pensatori. Anzitutto va ricordato il Kant della pace perpetua, sebbene egli non sia stato in assoluto il primo autore a porsi il problema di un «ordinamento cosmopolitico».
Kant ha il grande merito di aver teorizzato la necessità di un ordinamento internazionale ai fini della sicurezza e pace stabili; eppure i mezzi da lui individuati non potevano essere sufficienti allo scopo, ieri come oggi. La dottrina pura del diritto di Hans Kelsen del 1934 sembra fornire questo supporto teorico più complesso.
Kelsen osserva giustamente che tanto si può parlare di diritto internazionale come di cosa esistente in quanto esso è ordinamento coattivo.
Pertanto, senza il potere coercitivo, per Kelsen un ordinamento internazionale rimarrà sempre incompleto: «Il diritto internazionale è però anche un ordinamento giuridico primitivo. […] Manca qui ancora un organo per la produzione e l’esecuzione di norme giuridiche il quale funzioni secondo la divisione del lavoro. […] E lo stesso dicasi per l’applicazione delle norme generali al caso concreto»
Già al suo tempo Kelsen osservava che lo sviluppo a partire da questo stato primitivo avrebbe potuto condurre a «cancellare la linea di demarcazione fra diritto internazionale e ordinamento giuridico statale di modo che lo scopo ultimo della evoluzione giuridica reale diretta a un crescente accentramento sembra essere l’unità organizzata di una universale comunità giuridica mondiale, cioè la formazione di uno stato mondiale», che è quanto auspicava anche Kant, pur parlando, per la verità, di una federazione di stati piuttosto che non di un unico Stato di popoli distinti e diversi.
Senonché osta a questa evoluzione giuridica la concezione giuridica dello stato come soggetto assoluto di sovranità, in base alla quale al di sopra di se stesso lo stato non può riconoscere nessuna altra autorità, e dunque il rapporto fra soggetti di pari autorità non disposti a riconoscere alcuna cessione alla propria non può che essere conflittuale o quanto meno problematico. Per questa concezione il diritto internazionale non esiste che come risultato di accordi fra stati, dunque come consuetudine o prassi di interazione, la qual cosa non impone alcuna condizione coattiva interna ai sistemi giuridici statali.
Questa concezione, evidentemente, riafferma la teoria della supremazia della sovranità statale, concezione definita da Kelsen «soggettivistica»: essa riconosce come unica fonte legittima di diritto lo stato singolo, il quale attraverso l’atto di riconoscimento o ratifica autorizza un corpo di norme estranee a far parte del suo sistema, ma rimane l’unico promulgatore sovrano di norme.
Questa concezione non è stata superata nemmeno ai nostri tempi, se consideriamo che la prassi di approvazione e entrata in vigore dei trattati internazionali è appunto quella della ratifica da parte dei parlamenti nazionali, con il quale atto il dato trattato diventa legge di stato. In questo modo, è lo stato singolo a continuare a mantenere il primato della promulgazione del sistema di norme a cui riconoscersi vincolato.
E tuttavia questa concezione ha due meriti: uno, riconosciuto da Kelsen, che pure non mostra simpatia per questa soluzione, è quello di superare l’aporia dualistica. Con la prassi della ratifica, infatti, si ricostituisce l’unità dell’ordinamento giuridico, anche se con la risultanza che è l’ordinamento giuridico internazionale a essere subordinato a quello statale. Il secondo merito è quello di indurre lo stato ad autovincolarsi, o autolimitarsi, considerata la ratifica di norme che impongono un dato vincolo allo stato in questione (anche se, rifiutando ogni altra autorità al di sopra di sé, potrebbe liberamente decidere di non sottostare ad alcun patto o di abrogare la ratifica in qualunque momento).
La storia del progresso del diritto internazionale negli ultimi cinquant’anni è andata proprio in questa direzione, con continue auto-limitazioni della propria autorità sovrana da parte degli stati su una serie di campi. Ma l’ordinamento internazionale così costituito è ancora incompleto, benché non più primitivo, e presenta ancora due problemi: manca il potere coercitivo, cioè la capacità di far rispettare le norme internazionali allo stato violatore, e non si è ancora realizzata la condizione posta da Kant, ripresa in epoche recenti anche da Bobbio, sulla necessaria democraticità del sistema procedurale internazionale di decisione e sulla partecipazione al sistema di soli stati democratici (Bobbio, L’età dei diritti, 1990). Il primo problema è che lo stato singolo può recedere dai suoi impegni in ogni momento mediante un atto formale del proprio organo legislativo che abroga la ratifica o la firma di un dato trattato. Fortunatamente, ma piuttosto curiosamente, non risulta che sia stata una prassi di cui gli stati si sono avvalsi, pur avendone la possibilità. Il secondo problema è invece la violazione del trattato che è divenuto parte integrante del proprio ordinamento giuridico mediante ratifica: chi punisce tale violazione?
La quasi totalità dei trattati internazionali istituiscono norme o principi senza prevedere un comportamento coattivo per chi non li rispetta, e ciò è logico dal momento che non esiste un organo in grado di comminare tale sanzione e renderla effettiva. Fino ad oggi è stato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a svolgere in parte questo ruolo, ma purtroppo con criteri politici e non giuridici, e cioè discriminando per le ragioni più varie fra situazioni diverse e pure analoghe che avrebbero potuto richiedere lo stesso comportamento sanzionatorio (l’invasione statunitense del Vietnam o quella sovietica dell’Afghanistan non sono analoghe a quella irachena del Quwait?).
Inoltre il Consiglio di Sicurezza non è un organo democratico, e non rispetta nemmeno lontanamente i requisiti procedurali democratici intuiti da pensatori come Kant, Kelsen, Bobbio.
Kelsen propose nel 1934 (alla vigilia della messa in crisi della Società delle Nazioni con l’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia di Mussolini) la presenza di un ordinamento giuridico superiore che deleghi “frammenti di potere” agli ordinamenti dei singoli stati, ciascuno per il territorio a cui è stata assegnata la propria giurisdizione: un ordinamento giuridico del genere, super-statale e dunque per forza internazionale, sancirebbe giuridicamente nascita e morte dello stato, in quanto ha il potere evidentemente tanto di concedere quanto di ritirare la delega di potere.
Lo stato diventa «Un ordinamento giuridico parziale derivato immediatamente dal diritto internazionale, è un ordinamento relativamente accentrato con una sfera di validità territoriale e temporale delimitata dal punto di vista del diritto internazionale e con una pretesa di totalità rispetto all’ambito materiale di validità, ristretta solo dalla riserva del diritto internazionale».
Purtroppo, non è stata la strada seguita dallo sviluppo del sistema del diritto internazionale dai tempi di Kelsen a oggi. È vero senz’altro che si sono moltiplicati a dismisura gli oggetti e i temi lasciati alla definizione e alla normativizzazione da parte dei trattati internazionali: ma lo schema fondamentale della procedura di ratifica, mediante il quale lo stato afferma la sua superiorità sul diritto internazionale, non è venuto meno.
La stessa conclusione di Kelsen alla presentazione delle due alternative, entrambe valide dal punto di vista scientifico, nel tradire una propensione ideologica dell’autore verso la seconda ipotesi (atteggiamento insolito da parte del freddo e distaccato autore di una dottrina «pura» del diritto), sembra quasi sottolinearne la dimensione utopica, nel senso dell’indicazione di una strada ideale ancora tutta da percorrere: «La dissoluzione teoretica del dogma della sovranità, di questo massimo strumento dell’ideologia imperialistica diretta contro il diritto internazionale, costituisce uno dei risultati più importanti della dottrina pura del diritto. Anche se questo risultato non è stato raggiunto in nessun modo con propositi politici può avere, ciò nondimeno, conseguenze politiche. Viene rimosso infatti un ostacolo che si oppone in modo del tutto insuperabile a ogni perfezionamento tecnico del diritto internazionale, a ogni tentativo di progressivo accentramento del diritto internazionale».
E’ impossibile non vedere in questa insolitamente appassionata conclusione la stessa disposizione d’animo che animava Kant quando sosteneva che «L’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente».
L’idea della pace perpetua, cioè stabile, fra gli stati, animava Kant verso l’aspirazione a un diritto internazionale, come anima Kelsen, uomo tra i più ferventi sostenitori della democrazia in un periodo buio per essa, e grande, appassionato conoscitore dei problemi della pace. E oggi da utopia è diventata necessità, per uscire dalle aporie e ingiustizie del sistema ONU, ormai antiquato e non democratico. Ed è una necessità percorribile.