Visto che nella scorsa puntata abbiamo visto come la confusione di Croce su etica e politica risale a Hegel, è ora di affrontare il nemico vero di ogni teoria morale, il filosofo padre di ogni totalitarismo, e l’artefice della morte della filosofia come attività critica, il “calibano intellettuale” come lo definì Schopenhauer, ovvero il tanto immeritatamente blasonato George Wilhelm Friedrich Hegel.

Come è noto Hegel individua i tre momenti dello spirito oggettivo (che conclude l’intero percorso della dialettica dello spirito) in diritto,  morale ed eticità. Mentre noi, fin qui, consapevolmente e con convinzione teorica, abbiamo usato come sinonimi le parole «etica» e «morale», Hegel pone una pesante distinzione: la morale è il campo delle azioni e delle scelte in cui lo spirito è coinvolto secondo un’ottica ancora individuale e non votata all’universale, mentre l’eticità è il momento culminante di una sorta di crescendo teorico che attraverso gli opposti (diritto e morale) giunge all’autentica realizzazione dello spirito.

Inoltre Hegel, pur non esplicitando tale convinzione, concepisce l’eticità come il trionfo della politica: famiglia, società civile e stato ne sono significativamente le sue parti, e lo stato ne è il momento massimo, la «realtà dell’idea etica». Non si tratta ovviamente di una confusione terminologica, o di un’operazione riduttiva nei confronti dell’etica: la sottomissione dell’etica alla politica, operata attraverso la sottomissione della morale all’eticità e di questa al suo massimo grado di realizzazione, lo Stato, rappresenta proprio il nucleo di quell’impostazione concettuale che dobbiamo confutare se vogliamo difendere la nostra tesi.

Osserviamo quanto Hegel dice nei Lineamenti di Filosofia del Diritto della moralità, sforzandoci di selezionare gli elementi appena più comprensibili nell’ambito del delirio terminologico dell’autore: “Il punto di vista morale è perciò nella sua figura il diritto della volontà soggettiva. Secondo questo diritto la volontà riconosce ed è qualcosa soltanto nella misura in cui questo qualcosa è il suo, essa vi è a sé come cosa soggettiva”.

Hegel sottolinea l’aspetto soggettivo e individuale dell’azione morale in quanto suo «immediato esserci», volendo intendere che l’azione morale non segue nessuna legge esterna ma solo quella del proponimento individuale:

Il sostanza, il dovere tipico dell’azione morale sta nell’obbligo di conseguire il bene, il quale rappresenta insomma il fine di ogni azione etica. Ma naturalmente sorge spontaneo anche per Hegel il chiedersi come faccia l’individuo a determinare cosa sia bene e quindi quale sia il contenuto della sua azione: “Poiché l’agire esige per sé un particolare contenuto e un fine determinato, ma l’astratto del dovere non contiene ancora nulla di tale, ecco che sorge la questione: che cosa è dovere?”

Naturalmente Hegel si preoccupa bene di liquidare rapidamente la soluzione kantiana come «vuoto formalismo» perché il suo obiettivo è di giungere a una definizione del dovere come un contenuto da assolvere nella prospettiva dell’eticità, cioè dello Stato.

Noi ci limitiamo a osservare come anche terminologicamente il riferimento al «contenuto» sia ossessivo in Hegel: e questo ci porta a sostenere che la sua teoria morale (se di teoria si tratta) è sostantivistica, poiché si preoccupa di definire un contenuto dell’azione morale, piuttosto che il metodo con cui deve procedere. Per tale ragione, gli argomenti da noi esposti a favore della teoria kantiana rappresentano un’immediata confutazione di queste posizioni, e a fortiori delle posizioni di Croce sull’idea del contenuto universale delle azioni etiche, di cui abbiamo già detto.

Hegel punta subito alla questione che gli è più a cuore, ovvero il definire il contenuto delle azioni veramente morali attraverso la sezione dell’eticità, divisa in famiglia, società civile e Stato. 

Qui l’individuo, come è noto, trova la sua realizzazione morale (adesso però si chiamerà etica), prima come membro di famiglia e poi soprattutto come cittadino, disperso prima nella molteplicità degli interessi particolari nella società civile e infine cittadino al massimo livello come membro della comunità politica (in pratica come suddito del monarca, autorità suprema e centrale dello Stato, personificazione pura dello Stato stesso). Solo all’interno di questo schema prefissato, l’individuo può davvero compiere il bene morale. E non deve nemmeno sforzarsi più di tanto, in quanto gli basta fare quello che si trova a fare nei vari ruoli in cui risulta coinvolto dalla sua partecipazione sociale (figlio, lavoratore, capofamiglia, suddito) per compiere, magicamente, quel bene che la moralità da sola non è in grado di determinare.

In Hegel è l’eticità, e non la moralità, a essere concepita come analoga alla politica. Lo Stato, per Hegel, è «la realtà dell’idea etica», ma il legame fra etica e politica è qui presente in un senso ben diverso da quello inteso da noi. In primo luogo, secondo noi, l’attività politica è una forma di attività etica in vista dei ragionamenti che il politico deve (dovrebbe) assumere per decidere di volta in volta cosa fare. Per Hegel l’attività politica è attività etica in sé, in quanto lo Stato è lo Spirito incarnato e sceso in terra. In questa forma, è fatta salva la possibilità di giustificare la libertà hobbesianamente intesa del monarca, persona in cui si incarna lo Stato, di decidere quello che vuole, in quanto la sua decisione sarà sempre etica. Il risultato è opposto a quello a cui giungiamo noi: per noi il politico si comporta eticamente quando onorando il suo mandato assume decisioni rappresentative della volontà dei suoi rappresentati, per Hegel il politico si comporta eticamente (per meglio dire è egli stesso la realtà dell’eticità) qualsiasi cosa egli decida o faccia, e non ha certo bisogno, come per Hobbes, di renderne conto ai suoi sudditi.

Qual è la giustificazione che Hegel adduce alla identità fra etica e politica secondo la sua impostazione? Null’altro che il fatto che lo Stato è “Spirito oggettivo, è l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è un membro del medesimo”.

Un’affermazione che, letti e riletti i Lineamenti quanto si vuole, non troverà in tutto il testo una dimostrazione, o una spiegazione. E non può trovarla, giacché è un assunto metafisico. È la concezione idealistica stessa, l’implicazione della legge dialettica che Hegel ha creduto di voler rintracciare nella realtà, e la celebre identità di razionale e reale a fargli sostenere ciò. E a questa concezione egli sacrifica ogni autentico spirito di indagine, come quando afferma che “Se lo stato viene confuso con la società civile e la destinazione di esso viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti, e ne segue parimenti che essere membro dello stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento”,  mostrando di rifiutare così i risultati immortali delle filosofie del contratto sociale e del pactum sodalitatis, da Hobbes a Locke, Da Voltaire a Rousseau, da Kant a Montesquieu, e scegliendo di porsi su una strada che non era quella confermata dalla storia recente (le Rivoluzioni francese, inglese e americana) e non sarà confermata dalla storia successiva (la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 e il riconoscimento giuridico dei diritti dei popoli). E questo, per una filosofia che afferma che ciò che è reale è razionale, e pretende di essere interprete delle direzioni della storia, è un grave scacco.

La concezione sostantivistica di Hegel dichiara il bene un contenuto, e poi identifica questo contenuto nella sottomissione alle leggi dello Stato, identificando nello Stato stesso il fine universale a cui le azioni degli individui devono tendere. Gli individui hanno doveri verso lo Stato e lo Stato non ha doveri verso gli individui. Gli individui sono etici in quanto cittadini dello Stato, e lo Stato invece è etico in sé, indipendentemente dai fini per cui è sorto o per cui procede.

L’identità di etica e politica si realizza nello Stato, ma nel senso che la politica è autonoma da qualsiasi giudizio etico sul suo operato perché qualunque cosa faccia il politico è etica di per sé.

Letteralmente, non si tratta di un teorema da confutare, quanto piuttosto di un’interpretazione da assecondare oppure da rifiutare. Ciascuno è libero di accettare la proposta hegeliana, non trattandosi di una dimostrazione scientifica ma piuttosto di una visione politica. E tuttavia la storia degli ultimi due secoli mi sembra abbia scelto molto chiaramente in che direzione procedere.

Inoltre, l’universale presente nello Stato, che dovrebbe giustificare di per sé la scelta di questo come il vero soggetto etico, a ben vedere non appare nient’altro che un universale che scaturisce da quel «sistema dei bisogni» che in precedenza egli individua come motore fondamentale della società civile, e che fa appunto convertire il «particolare» degli interessi nell’»universale» della costituzione.

Questo punto è stato ben colto da un fine interprete della filosofia del diritto hegeliana, Gino Capozzi, il quale demistifica e «smaschera» questa discesa nell’«inferno dell’utile» dello stato hegeliano (G. Capozzi, Forze leggi e poteri, Iovene, Napoli, 1998). Queste osservazioni distruggono del tutto il fondamento di universalità in sé e per sé dello Stato etico hegeliano, che se è etico lo è in un senso molto comune e ben poco mistico, nel senso appunto della sua utilità. Ma se questo smascheramento del falso misticismo hegeliano del senso dello stato conduce ad affermare che alla base dell’emergere del sistema delle istituzioni vi sia un’etica eteronoma dell’utile, non entra in crisi anche la nostra teoria della derivazione della politica dall’etica intesa nel senso kantiano?

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