Il fatto che la decisione politica sia sottoposta a vincoli di natura etica, non vuol dire ovviamente che dia per forza come risultato un’azione etica. Il soggetto politico potrebbe sottrarsi alla sua responsabilità (che gli è addosso in ogni momento del suo mandato, nelle sue gesta pubbliche) compiendo quello che il suo mandato non permette o non consente, approfittando del suo potere. In tal caso oltre a essere una scelta non etica, sarebbe anche una scelta illegale, perché egli è vincolato a rispettare gli obblighi del suo mandato. 

Ma egli può anche commettere una scelta non etica, ma non illegale, approfittando del potere concessogli per scopi personali, pur senza disobbedire alla legge. In tal caso, egli non è passibile di punizione di fronte alla legge, ma ha trasgredito comunque i vincoli etici del suo mandato, che sono molto più ampi di quelli giuridici, in quanto essi consistono nel mantenere il patto che egli ha stretto con i suoi rappresentanti, che è quello di rappresentarli sempre in ogni occasione pubblica (rappresentare cioè le loro volontà, le loro preferenze). È chiaro che un’azione del genere sarebbe sempre da chiamare azione politica, se intendiamo il fatto che è compiuta da un soggetto che ha una certa autorità e un certo potere politico, ma è un’azione che trasgredisce al fine per cui gli è stata concessa quell’autorità e quel potere politico, è insomma un tradimento delle volontà dei suoi rappresentati.Noi vogliamo assumere, alla luce del legame così individuato fra etica e politica, che azioni di questo tipo (tutt’altro che insolite nella prassi politica dei nostri governanti) debbano essere condannate eticamente e dunque punite politicamente. E di questa asserzione sottolineiamo come aspetto più importante il «dunque» che ne evidenzia la consequenzialità. Se un’azione politica è un’azione etica a livello intersoggettivamente più elevato, la non rispondenza di una azione a questi canoni la rende un’azione non accettabile politicamente, cioè tale da dover ripudiare il soggetto agente che la compie. Il ripudio qui non è etico, e né giuridico: deve essere portato su un piano squisitamente politico, deve cioè costituire motivo di sfiducia da parte degli elettori, che sarà espressa al momento del voto.Ciò che noi proponiamo è in sostanza è in sostanza un canone di giudizio, tratto dall’etica, attraverso il quale giudicare le azioni politiche, che sono, diciamo così, un sottoinsieme di quelle etiche (anche se il sottoinsieme più importante). Questo canone di giudizio etico non deve esercitarsi però sui contenuti dell’azione politica: non si tratta qui di condannare il soggetto politico che decide un’invasione militare o la condanna a morte di un criminale.  In questa forma, il giudizio etico sarebbe di tipo sostantivistico, e sarebbe quel tipo di giudizio per il quale giustamente autori come Hobbes e Machiavelli hanno sostenuto l’impossibilità di applicazione alla sfera politica.
Una guerra o una condanna a morte sono giustificati politicamente se il soggetto agente ha deciso in funzione degli interessi e dei voleri dei suoi cittadini, cosa che è l’unica prescrizione etica che egli deve tenere in considerazione in quanto politico: tutt’altra cosa è ciò che egli potrebbe considerare come prescrizione etica in quanto uomo, o in quanto cattolico, islamico, e via dicendo. Ma appunto, in quanto politico, egli ha come primo e superiore obbligo etico quello di rispettare il patto di rappresentanza con i suoi cittadini, e dunque di decidere per loro, cioè in funzione delle loro preferenze. La concezione della politica esposta fin qui potrà apparire a molti alquanto riduttiva, e poco convincente. Di fatto, essa lotta contro una concezione dominante per secoli, secondo cui la politica nel senso moderno è un’attività specialistica, al limite professionale, per cui si richiedono competenze specifiche, e alla quale vanno sacrificati i valori e le prescrizioni provenienti da altri importanti campi dell’attività spirituale umana, come la cultura, la religione, il diritto, l’etica appunto. Ma la politica resta anche per noi un’attività specialistica, professionale, alla quale è opportuno che accedano persone di competenza, e con conoscenze specifiche che non hanno nulla a che vedere con i principi etici (economia, diplomazia, storia, ecc.).
Il punto è che un leader politico può assommare nella sua persona tutte queste conoscenze, ma non sarà mai un buon leader politico se non è rappresentativo degli interessi delle persone che rappresenta, e per far questo egli deve agire secondo vincoli etici, altrimenti userà le sue conoscenze per altri scopi che non sono quelli della politica.
È chiaro che una critica alla nostra proposta colpirebbe veramente nel segno soltanto se essa non mette in discussione il concetto di etica che abbiamo proposto, usufruendo dell’impostazione kantiana riveduta alla luce delle più attuali teorie utilitariste, né tantomeno la definizione di politica, che abbiamo desunto da Hobbes per allargarla poi ai contenuti che ci sembravano più rispondenti con le esigenze odierne dell’ipotetico pactum sodalitatis fra i cittadini. Esse infatti sono le nostre premesse, e di un ragionamento non si mostra la scorrettezza formale contestandone le premesse, ma solo la logica con cui arriva alla conclusione.Naturalmente, il nostro ragionamento potrebbe al contrario essere formalmente corretto, nel senso che desume dalle premesse considerate ciò che c’è da desumere, ma potrebbe essere materialmente inadeguato nella misura in cui non convince nella definizione di ciò che è politica e ciò che è etica.
Al lettore spetta il giudizio naturalmente, ma data l’importanza della questione anche ai fini delle successive argomentazioni presentate in questo testo, noi non ci sottrarremo al confronto con  i sostenitori di una teoria materialmente diversa dalla nostra ed anzi opposta, secondo cui la politica è attività autonoma. Mostreremo anzi nelle prossime puntate definitivamente che questa concezione merita di tramontare del tutto, in quanto non regge ad alcune critiche fondamentali

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