Comincia con questa puntata un discorso nel quale vogliamo offrire ai lettori una proposta integralmente nuova di lettura del concetto di «attività politica»: a partire da questo nuovo concetto, considereremo la possibilità di delineare una nuova teoria della politica.Il concetto tradizionale di «politica» è servito spesso se non sempre a supportare ideologicamente certe pratiche di governo che vanno nella direzione opposta da quelle che saranno da noi proposte.
Il primo riferimento da considerare ha sulle sue spalle una fama proverbiale: si tratta dell’idea di attività politica sostenuta più di cinquecento anni fa da un politico di professione, che risponde al nome di Niccolò Machiavelli.
Tradizionalmente, la «scoperta della politica» come sfera indipendente di riferimenti per scelte di azione è infatti attribuita alla sua speculazione. Da Machiavelli in poi (ma sarebbe più corretto dire da una certa interpretazione di Machiavelli in poi, come vedremo più avanti) non è mai stata messa in discussione questa convinzione fondamentale che la politica sia una sfera di pensiero e azione del tutto indipendente e autonoma da altri campi di indagine pure concettualmente contigui quali l’etica e la religione. Proveremo a sostenere, nei paragrafi seguenti, che questa «scoperta» di Machiavelli (se davvero fu Machiavelli a effettuare tale scoperta) verte in realtà su un fraintendimento colossale, che ha dato adito a una quantità innumerevole di speculazioni basate su un equivoco clamoroso.
Anche qui, curiosamente, potremmo utilizzare come incipit del nostro discorso una frase citata da un diffuso manuale di storia del pensiero e della letteratura: «L’interpretazione ancor oggi più diffusa di Machiavelli ne fa il primo studioso e tecnico moderno della politica, colui che l’ha resa scienza autonoma rispetto agli altri campi dell’attività umana. Secondo questa visione, che ha le sue radici nella riflessione di Benedetto Croce, Machiavelli avrebbe fissato uno dei presupposti del pensiero moderno, distinguendo e separando la politica dalla morale, dalla religione, dal mito, e aprendo la strada alla sua tecnicizzazione, alla definizione della sua pura operatività”.Partiamo dalla constatazione che, indubbiamente, l’opera del segretario fiorentino contiene degli elementi di novità che sono inequivocabili, rispetto al modello di trattatistica storica e politica in vigore all’epoca.
Su questi elementi di novità concordano in maniera davvero unanime tutti gli interpreti vecchi e recenti di Machiavelli, tanto che non c’è bisogno di soffermarsi su questo aspetto. Il punto è che questi elementi di novità sono stati sopravvalutati, e sono stati interpretati come il nascere di una nuova concezione della politica, quale il Machiavelli non mi sembra essere consapevole di possedere. La ricerca della «verità effettuale», il rifiuto di ogni utopia, l’analisi spregiudicata delle passioni umane, il taglio quasi antropologico con cui il Machiavelli osserva i comportamenti degli uomini nel mondo nel loro perdurare da Roma al Cinquecento sono sicuramente elementi che consentono di affermare che siamo di fronte a uno dei più grandi scrittori del Rinascimento, ma basta ciò per affermare che siamo di fronte anche a una nuova teoria della politica?Machiavelli analizza le cause della rovina o del successo di principati e repubbliche, sempre dal punto di vista dei potenti, dei governanti. La sua è la politica della manipolazione, un lavorio incessante improntato alla dea prudenza per impedire che le circostanze possano sopraffare il lavoro del politico-artista, che deve incasellare ogni elemento al punto giusto ed esercitare una continua sorveglianza per impedire che la costruzione vada a fondo. In questo, Machiavelli dimostra di essere un grande analista, forse il più grande analista del suo tempo, il cui oggetto di studio è ossessivamente la gestione della cosa pubblica da parte del potere. Ma questo non basta a valergli il titolo di inventore di un nuovo modello di politica. Tutt’altro: Machiavelli non inventa niente, osserva, più che altro, come i potenti gestiscono lo stato, e da ciò ricava delle regole che servano per chi deve fare altrettanto.
Ma siamo proprio certi che egli ritenesse che quelle regole fossero universali, valide cioè in ogni tempo e in ogni luogo, come una certa interpretazione vuole far credere attribuendo al nostro la patente di «inventore della politica nel senso moderno»? E quand’anche egli le ritenesse davvero universali, possiamo mai credere che, di fronte a sconvolgimenti mondiali che egli sicuramente non avrebbe mai potuto immaginare, dalla rivoluzione francese al suffragio universale, dalle guerre mondiali alla guerra fredda, tali regole possano restare, davvero, ancora valide?L’analisi che Machiavelli svolge è tutta circoscritta a un modo di fare politica che è stato superato dalla diffusione dell’Illuminismo e dalla rivoluzione francese. È da questi eventi fondamentali che i popoli hanno smesso di essere masse informi, come il Machiavelli (giustamente per la sua epoca) li vedeva, per diventare soggetti attivi della storia.Machiavelli non può fornire un modello universale di teoria della politica perché la sua analisi si rapporta a un certo tipo di istituzione statale che è oggi assolutamente superata e decaduta.
Voler tenere in piedi le osservazioni di Machiavelli nell’ambito di un mondo nel quale i popoli partecipano alla vita politica non foss’altro che nel momento del voto, significa trasferire le analisi di un politico tutto proiettato nel suo tempo al di fuori del contesto in cui quelle analisi sorgono. Se Machiavelli fornisce nel «Principe» una guida alla conduzione e alla gestione dello stato, lo fa certo non prescindendo da quelli che sono i modi e i modelli per la conduzione dello stato che egli desume dall’analisi del suo tempo. La sua virtù immortale è semmai quella di «parlare chiaro», cioè di evitare immagini virtuose non corrispondenti alla realtà o vagheggiamenti utopici del tutto improponibili per l’epoca sua, mostrando quindi i retroscena, anche quelli meno accettabili, del fare politica tipico dei governi oligarchici (quali erano, inevitabilmente, i governi sia dei principati sia delle repubbliche prima dell’avvento della partecipazione dei cittadini al voto con la rivoluzione francese).Machiavelli è uno scrittore realista, un «pittore della politica», come è stato detto, degno di lode immensa per questo; ma non è certo un filosofo né un teorico della politica, le cui idee possano davvero dirsi universali. E quali sarebbero poi queste «idee» che egli introduce nella sua celeberrima opera? Utilizzare le armi proprie invece delle milizie mercenarie? Andare ad abitare nei principati acquisiti prima che si creino focolai di dissenso? Valersi della fama di liberale ma essere, all’uopo, parsimonioso quanto basta? Cercare di essere temuto piuttosto che amato, non potendosi dare entrambe le cose contemporaneamente? Saper esser «golpe e lione» a seconda dei casi? Circondarsi del favore del popolo cercando di eliminare le inferenze dei «grandi»?
Si legga e si rilegga l’opera più famosa del Machiavelli, e non si troveranno altre indicazioni che queste. Le quali, se hanno un valore, lo hanno certo per la conduzione della politica nell’epoca sua, e non possono certo essere universalizzate o estese ad altri contesti.
È noto che Machiavelli quando guarda al passato distorce allegramente la verità per accomodare i fatti al suo uso più opportuno. Figuriamoci dunque se queste osservazioni, se questo «Galateo del principe» può mai contenere elementi validi di teoria politica per un’epoca come la nostra lontana anni luce dal tipo di gestione dello stato in vigore nel Cinquecento.Sorprende a questo punto non tanto la fama duratura di Machiavelli, che a mio parere è del tutto meritata proprio in quanto analista, pittore si diceva, della politica del suo tempo, di cui egli fornisce un’immagine disincantata e lucida degna di un grande e acuto osservatore e cronista, quanto la confusione esercitata dalle sue parole su lettori di palato fine e attento che hanno creduto di individuare in lui qualche indicazione di cui l’epoca contemporanea potesse usufruire.Machiavelli è teorico (se di teoria si può parlare a proposito della sua opera) di una politica dal punto di vista dei governanti. Di questa visione il minimo che si può dire è che essa è parziale , unilaterale, non completa.
Forse non nel Cinquecento, ma di certo oggi, questa visione necessita di essere integrata dall’analisi della politica dal punto di vista dei governati. La storia anzi ci dice che questo è il punto di vista che ha prevalso nei secoli più recenti. È necessario pertanto aggiornare la visione della politica a questo punto di vista a meno di non voler fornire una perenne giustificazione ai governanti del loro presunto potere di fare tutto ciò che vogliono in virtù appunto del loro potere di governo. È tanto più da ricusare pertanto qualunque visione della politica che, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, continui a riproporre all’attenzione il problema politico esclusivamente dal punto di vista dei governanti.Ed è particolarmente significativo che queste indicazioni che si è creduto di dover individuare non sono contenute nell’opera stessa dell’autore (abbiamo già visto con rapido sguardo che neppure il lettore meno avveduto potrebbe mai pensare che i suggerimenti che Machiavelli dà al suo principe ideale possano davvero andare bene per i politici di adesso) ma piuttosto in una lettura di quest’opera che costruisce intorno alle sue osservazioni sparse un nucleo di teoria di cui è legittimo dubitare che vi sia traccia nel testo, non emergendo in nessun punto del lavoro. Il nucleo di teoria di cui parliamo è quello a cui accennava la nostra citazione, ossia che nell’opera del Machiavelli sia contenuta non solo una visione disincantata e spregiudicata della politica (questo siamo disposti ad accettarlo), ma una vera e propria teorizzazione della sua natura, secondo la quale la politica è una attività autonoma dello spirito umano, senza alcun legame con altre attività spirituali. Espressa in questa formula, che ne esplicita il riferimento di senso, la presunta teorizzazione di Machiavelli inizia già a sapere davvero poco di machiavellismo e a mostrarsi per quella che è, una teorizzazione non di Machiavelli ma di Benedetto Croce, non a caso tra i più famosi interpreti del nostro.
E’ Croce ad avere rivestito l’analisi machiavelliana di una veste teoretica che essa non ha, non poteva e forse non voleva nemmeno avere (Machiavelli, come è noto, si dichiarava uomo d’azione e non di speculazione, e anche nei suoi scritti egli privilegia l’osservazione e la riflessione sporadica alla sistemazione teoretica).
Non si rimprovererà certo ad un lettore di leggere un libro secondo dei paradigmi di riferimento suoi propri e peculiari, ma la lettura di Croce è divenuta, nel tempo, grazie alla dittatura intellettuale che egli ha esercitato in Italia e in Europa, quasi l’espressione stessa della verità, occultando per molto tempo la strada a interpretazioni e letture diverse che certamente sono meno affascinanti ma hanno il merito di essere più vicine alla lettera del testo. Ed inoltre, sebbene nessuno possa fare a meno di far intervenire i suoi pre-giudizi nella lettura di un testo come ci insegnano le teorie ermeneutiche, la disonestà dell’interpretazione di Croce sta nel fatto che, con tipica operazione di stampo hegelista, il filosofo napoletano ha fagocitato una testimonianza spirituale indipendente per farla divenire prova inconfutabile della veridicità della sua teoria, già bella e precostituita.E’ nota infatti la teoria crociana della partizione fra i quattro nuclei fondamentali di attività dello spirito umano: l’estetica, l’etica, l’economica (nella quale Croce fa rientrare l’attività politica) e la logica. Stante questa ipotizzata distinzione, è divenuto facile per il filosofo utilizzare l’opera di Machiavelli come prova che davvero la politica rientra in un ramo di attività del tutto distinto dall’etica, con la quale prima di allora aveva avuto una ambigua e scorretta familiarità. In quanto scrittore disincantato, che vede e mostra le cose per quelle che sono senza peli sulla lingua, Machiavelli è apparso al Croce il corifeo di una impostazione della politica come attività autonoma che trae la sua giustificazione da se stessa e non ha bisogno di altri sostegni teorici per potersi affermare come tale. In primo luogo Machiavelli non sostiene in nessun punto dell’opera, né implicitamente né esplicitamente, una concezione del genere, e a ben vedere è lontano dal ritenere che la politica si giustifichi da sola. La giustificazione delle azioni del politico sta nel fine per cui esse sono usate, da cui la nota distinzione fra le crudeltà male usate e quelle bene usate. Una distinzione che, se analizzata attentamente, non contiene alcuna autonomia rispetto a giudizi di etica, per esempio di tipo utilitaristico, che tranquillamente potrebbero giustificare la scelta di un’azione crudele se essa avesse un fine degno. In ogni caso la politica per Machiavelli non è giustificata da se stessa, ma dal fine per il quale la si impiega. Peraltro la stessa frase «la politica giustifica se stessa», per chi veramente intende il significato del fare politica, non significa nulla o significa qualcosa di grossolanamente errato, come mostreremo più avanti.Per il momento ci basti dire che la famosa teoria dell’«autonomia della politica» non è machiavelliana, in nessun modo, e che le osservazioni contenute nell’opera del segretario fiorentino, tanto celebri e proverbiali, non autorizzano in nessun modo ad attribuire a lui tale teoria
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