Il meccanismo di funzionamento della rappresentanza è stato descritto attentamente da Weber, che distingue la rappresentanza politica propriamente detta da quella per interessi, intendendo la prima come quella rappresentanza che non resta vincolata necessariamente al rapporto con i propri rappresentati, in quanto essa costituisce un «ufficio» il cui ruolo è riconosciuto come tale da tutte le parti in gioco, e pertanto rispetto a tutte le parti in gioco essa deve costituirsi in primo luogo. 

Il senso è quello di sottolineare che un rappresentante parlamentare, ad esempio, è pur sempre rappresentante di tutta la nazione ancor prima che essere rappresentante della parte di elettori che lo ha posto in carica con il consenso espresso. Fin qui, ci si limita a una descrizione puramente oggettiva della condizione reale, ma è legittimo pur sempre domandarsi se, stante l’«ufficio» di rappresentante della nazione, il parlamentare agisca nella prassi autenticamente come tale, e non piuttosto come rappresentante di gruppi o porzioni della società. Vero è che il rappresentante parlamentare, pur nell’ufficio di rappresentante della nazione intera, è di norma esplicitamente portatore dei valori e degli ideali e obiettivi politici del partito, il quale figura da tramite fra il ruolo di rappresentante e i rappresentati, cioè i cittadini. Sono i partiti, infatti, a convogliare esigenze e interessi dei singoli cittadini in programmi politici condivisi che di norma sono quelli a cui il rappresentante vincola la sua azione politica. C’è già dunque una contraddizione sul piano formale tra il ruolo del parlamentare come rappresentante della nazione e il suo legame vincolare al partito dalle cui fila egli è stato eletto. Questa contraddizione è esplicita, nel senso che non è occulta, ma è risaputa. Una possibile contraddizione occulta invece si può pensare (e di fatto l’attualità politica insegna che esiste, eccome) fra gli interessi del partito e i programmi del partito. I primi sono interessi che non hanno nulla a che fare con il mandato che gli elettori affidano al partito, (e sono di norma interessi occulti, noti al limite solo ai membri del partito), i secondi invece sono i contenuti di quel mandato, e, a rigore, dovrebbero essere gli unici elementi-guida della condotta politica del partito e a maggior ragione di un suo membro eletto, secondo i requisiti della nostra teoria.

E’ nostra convinzione che tutti questi elementi problematici siano portati alla loro attuale esasperazione dalla prassi del divieto di mandato imperativo, ovvero dalla prassi (che nella maggior parte dei casi è anche norma giuridica) di non considerare vincolante il mandato del rappresentante con i suoi elettori.

Secondo Bobbio, è stata la violazione ripetuta di questo divieto a costituire una delle promesse non mantenute della democrazia (vedi Il Futuro della Democrazia). Ciò è vero se si considera la violazione come violazione di un obbligo morale (l’obbligo dei rappresentanti di considerare se stessi come rappresentanti della nazione ed agire quindi per l’interesse della nazione e non di gruppi specifici). Ma dal punto di vista giuridico, è proprio il mantenimento di questo divieto a costituire, secondo noi, una forte sollecitazione alla violazione morale del divieto stesso. 

Spieghiamoci meglio: la presenza di una norma giuridica che sottrae il rappresentante dall’obbligo giuridico di rappresentare solo quella parte di cittadini che lo ha eletto o il partito dalle cui fila egli è stato selezionato può essere fonte della violazione dell’obbligo morale di fungere da rappresentante dell’intera nazione. Il parlamentare, non essendo vincolato da alcuna norma giuridica sanzionatoria a difendere esclusivamente gli interessi degli elettori che lo hanno votato, o del partito che lo ha candidato, ha così la possibilità di trasgredire all’obbligo morale di rappresentare la nazione preseguendo fini ed obiettivi rispondenti a interessi occulti e al limite personali, non rispettosi del suo mandato fiduciario e del legame col partito da cui proviene.

L’ufficio di cui parla Weber, come ruolo di rappresentanza riconosciuto da tutte le parti in gioco e superiore agli interessi di gruppo, è valido infatti solo se viene interpretato come tale da colui che detiene la carica di rappresentante: se egli trasgredisce all’obbligo morale di rispettare questo ufficio, la dignità della sua carica e del ruolo che riveste è tutta da mettere in discussione. Inoltre, Weber non considera che la dignità dell’ufficio di rappresentante della nazione è in fondo costruita tutta sul fatto che egli sia effettivamente un rappresentante: cosa che può accadere solo se egli rispetta i vincoli del mandato con i suoi elettori. Il rispetto con cui bisogna trattare la carica politica di rappresentante non prescinde dal, anzi è costruito sul fatto che egli è rappresentante solo di una parte degli elettori, e non della nazione tutta. Egli è rappresentante della nazione esattamente quando compie il suo ruolo che è quello di rappresentare interessi di un gruppo o di una categoria, e non quando si pone al di fuori di questo vincolo. Anche perché, mentre si può imporre e controllare che un soggetto politico agisca da rappresentante di una parte dell’elettorato, non si può invece imporre (e quindi controllare) che un politico agisca da rappresentante della nazione.

E ciò lascia la possibilità di poter celare, dietro una esteriore adesione all’obbligo morale di rappresentare la nazione, la volontà (a volte la necessità, come suggerisce Bobbio, della logica di appartenenza partitica) di rappresentare solo certi interessi ben specifici.

E’ appena il caso di osservare che questa situazione determina il proliferare di centri di interesse, talora espliciti e talora occulti, che condizionano la vita parlamentare ben al di là del loro diritto di influenza elettorale, e si tramutano pertanto in veri e propri centri di potere, a cui il partito e/o il singolo rappresentante sacrifica il proprio vincolo di fiducia con l’elettorato. Si determina un legame oscuro fra interessi di partito (sopravvivere, anzitutto, e poi conquistare ruoli di potere, gestire ampi spazi di comunicazione mediatica, insediarsi nei luoghi dell’amministrazione che conta) e sponsor più o meno invisibili, a cui naturalmente il partito dovrà nella prassi di governo fare concessioni più o meno ampie, che finisce per lasciare sullo sfondo il dovere fondamentale del partito stesso che è quello di rispettare il suo programma, e cioè di rappresentare gli elettori.

In una tale condizione è poi facile per il partito o il gruppo di maggioranza propagandare la propria azione di governo come un’azione giustificata dal consenso maggioritario degli elettori, laddove nella realtà il partito non sta affatto curando gli interessi di quella maggioranza che gli ha affidato il mandato: è così che rappresentanza e regola di maggioranza, da principi solidi di democrazia, diventano strumenti per il più bieco mantenimento del potere. Chiunque non veda oggi queste come le principali e più diffuse distorsioni della normale e legittima prassi democratica può continuare a pascersi della convinzione di vivere nel migliore sistema di governo che si possa immaginare, e divertirsi ad assistere, da spettatore che si crede protagonista, al gioco delle manovrate alternanze elettorali, che altro scopo non hanno che assicurare alla medesima classe politica, senza più distinzioni ideologiche, il proprio auto-riprodursi

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