E’ certo che la regola di maggioranza non può essere abbandonata. Crediamo di aver mostrato a sufficienza che essa non deve essere considerata né la prima, né la più importante caratteristica dei regimi democratici, ma non vi sono ragioni sufficienti per decretarne l’abolizione. Per meglio dire, il fatto è che l’abolizione della regola della maggioranza (a favore ad esempio di quella dell’unanimità o della scelta autoritaria) certamente comporta più difficoltà e storture di quante non ne crei il suo mantenimento. Tutto quello che può fare l’ingegneria della politica è cercare di ridurre le carenze di questa regola, senza illudersi di poter giungere alla soluzione perfetta.

Quanto alla questione della sua validità di applicazione, possiamo osservare con Bobbio che è necessario sorvegliare che la regola di maggioranza sia applicata solo al campo dell’opinabile: si può salvaguardare in questo modo la tutela di quei principi fondamentali che non possono essere messi in discussione da alcuna componente maggioritaria di assemblea, o ancora il campo dei principi individuali di coscienza, che non sono opinabili da nessuno al di fuori dell’individuo stesso, o quello della ricerca della verità (per definizione la verità non è opinabile).

Quanto all’efficacia e all’efficienza dell’applicazione della regola di maggioranza (distinta per il momento dal problema di quanto la maggioranza dei decisori sia rappresentativa del popolo per cui decide) si può pensare a una limitazione dell’applicazione della regola di maggioranza, sostituendo ad essa le altre due soluzioni che la democrazia conosce per giungere alla decisione: la contrattualità e l’unanimità. Non possiamo in questa sede spingerci a fare esempi concreti, ma possiamo sicuramente osservare che non si capisce perché le questioni più importanti sulle quali un’assemblea è chiamata a decidere non possono essere raggiunte all’unanimità.

L’obiezione nei confronti della regola dell’unanimità è nota, e anche molto pertinente, indubbiamente: teoricamente è la regola perfetta, praticamente conduce all’impasse. Senonché ciò accade solo quando l’unanimità si considera disgiunta da un lato dalla possibilità della contrattualità, e legata indissolubilmente all’aspetto del numero dei votanti.

Spieghiamoci meglio: è chiaro che un’assemblea di 630 votanti non raggiungerebbe mai l’unanimità: anche se ci riuscisse, lo sarebbe in virtù di una forte e lunga contrattazione fra le parti, che probabilmente prima di arrivare alla conclusione avrebbe già bloccato per mesi ogni decisione. Ma se la stessa assemblea, in base alla proporzione dei gruppi parlamentari (e quindi in rispetto della regola di maggioranza) nominasse ad esempio 10 delegati per prendere tale decisione, essi potrebbero giungere all’unanimità in breve tempo, naturalmente dovendo accordarsi su un principio di decisione valido per tutti (essendo rappresentanti di fazioni diverse, non partirebbero dalla stessa idea, dunque l’unanimità sarebbe frutto di un accordo e non di un consenso iniziale). L’esempio è puramente teorico, e di per sé non merita di essere sviluppato fino al punto da costituire una proposta politica: e tuttavia non sembra contenere aporie o limiti di realizzabilità o di legittimità insostenibili, o maggiori di quelli che abbiamo evidenziato noi nell’applicazione della regola di maggioranza pura e semplice.

La possibilità di contrattare un compromesso, naturalmente, è elemento fondamentale del modello teorico di decisione appena proposto, e anche contro di essa le critiche sono ben note: essa impedisce la realizzazione dell’autentica volontà dei cittadini, giacché il frutto del compromesso non è di per sé il desideratum di nessuna parte. Non c’è nulla da obiettare a questa osservazione, perfetta in sé, se non che non si capisce allora perché il modello contrattuale viene adottato in altre situazioni della normale vita democratica di un paese (fra sindacati e imprenditori, fra governo e l’una e l’altra delle parti, ecc.). È vero, la contrattualità è molto applicata in campo sociale, ma resta una prassi raramente applicata in campo politico. Ma è appunto questo che andrebbe spiegato, visto che se ha dei difetti, essi restano tali in ogni caso. E non si comprende come mai si ignorano questi difetti proprio nel caso di contrattazioni che a rigore suscitano problemi di legittimità in quanto non si tratta di contrattazioni fra individui di pari livello che possono usare lo stesso potere contrattuale (come nel caso delle contrattazioni fra imprenditori e operai), né fra individui dello stesso numero, dotati quindi della stessa forza quantitativa (sempre nelle contrattazioni di fabbrica, questo aspetto dovrebbe far prevalere il punto di vista degli operai, in quanto essi sono molti, e l’imprenditore uno); e invece nel caso di contrattazioni politiche, questi difetti vengono fatti risaltare al livello da rendere illegittima o impossibile la contrattazione stessa.

Non è il caso di elencare in questa sede i possibili campi di decisione in cui la regola della maggioranza potrebbe essere sostituita opportunamente da quella dell’unanimità (semplice o corretta secondo il nostro modello teorico) o da quella della contrattualità; ma di sicuro vi sono alcuni argomenti per cui essa certamente potrebbe lasciare il campo, o addirittura è desiderabile che lo faccia: ad esempio l’entrata in guerra, o le politiche di indebitamento per aumentare la spesa pubblica, insomma tutte quelle decisioni le cui conseguenze coinvolgono la cittadinanza intera in maniera pervasiva e superiore al livello della norma.

Sembra quasi che la democrazia reale si sia dimenticata di quante armi ha a disposizione: e se è vero che spetta alla prassi politica intraprendere le riforme istituzionali che consentano di utilizzare al meglio tutte queste armi, è anche vero che spetta alla teoria non solo il dovere della memoria, ma anche la necessaria spinta all’osare di più, definendo i limiti del possibile e dell’opportuno.

Una democrazia «vera» non può identificarsi esclusivamente con il principio di maggioranza, né essere schiava di esso: il principio funziona come regola efficace di decisione solo quando sono soddisfatte anche altre condizioni, e il problema fondamentale resta quello di realizzare o rendere effettive tali condizioni. L’uso del principio di maggioranza, quando è fatto a bella posta al di fuori della garanzia di quelle condizioni, è puramente strumentale e deviato

Fra queste condizioni, abbiamo evidenziato anzitutto il rispetto e la tutela delle minoranze, inteso non solo formalmente ma anche e soprattutto come coinvolgimento nella decisione politica nei casi più gravi e importanti, attraverso la forma della contrattualità o della ricerca dell’unanimità. Analizzeremo ora la condizione senz’altro più importante, quella relativa all’esistenza di un sistema realmente rappresentativo.

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